"Chi è quello?" chiese Irtane.
"Si chiama...Giuseppe...il nome è difficile da pronunciare lo so, ma lo trovo orecchiabile" rispose il generale Potifar.
"Uno schiavo?"
"Sì, viene da Canaan. L'ho comprato da alcuni mercanti Ismaeliti qualche tempo fa."
Irtane guardò meglio quello schiavo con un'espressione curiosa.
"Canaan? Fai attenzione Potifar: i Cananei sono o pastori o briganti. Ho già avuto schiavi da quelle tribù e quasi tutti hanno cercato di scappare e derubarmi. Uno di loro ha anche cercato di uccidermi. Sono arroganti, feroci, imprevedibili, poco più che selvaggi."
"Irtane, amico mio, ti assicuro che quel Giuseppe è molto diverso. Non viene da una delle tribù cananee consanguinee degli Iksos. Lui è educato, rispettoso, pensa che sapeva già parlare e scrivere la lingua egizia, sa contare oltre il numero cinquanta ed è anche un artista eccellente."
"Certo ha un aspetto gradevole e sembra anche forte, immagino sia un ottimo sguattero o un eccellente servitore."
Potifar scoppiò in una sonora risata.
"Lui è il mio amministratore: gli ho affidato il controllo delle mie terre e delle mie attività."
"Cosa?" chiese uno sconvolto Irtane.
"Sono mesi che amministra tutti i miei possedimenti e grazie a lui sto per diventare l'uomo più ricco d'Egitto. Dopo il Faraone naturalmente."
"Non ci posso credere...un cananeo?"
"Un Israelita a dire il vero. Adesso è meglio che ci sbrighiamo: Faraone si aspetta di incontrarci entro il mezzodì e sai quanto il figlio di Ra detesti i ritardatari."
"E ha ragione. Pensa come si annoierebbe se non avesse il suo coppiere a riempirgli il calice e tu, il suo generale, a dirgli quali nemici sconfiggere."
Potifar sorrise al pensiero di ciò che stava per raccontare al sovrano più potente del mondo.
Quando il generale tornò a casa quella sera era piuttosto stanco. Non sapeva cosa stava accadendo e che lezione sarebbe stata per il futuro ciò che era appena accaduto in casa sua.
Mentre Potifar lasciava la casa quel giorno sua moglie, la nobilissima signora della casa, lo osservò con un certo interesse. Era nata in una famiglia estremamente importante, potente e ricca, forse imparentata con la dinastia del Faraone. Era sempre stata trattata come una regina, ma non si sentiva molto diversa dagli schiavi del suo illustre sposo; ella aveva una pesante catena fatta di dovere, lusso e apparenza. Ad un certo punto in casa era arrivato qualcosa di nuovo, uno spiraglio, una distrazione che le avrebbe dato qualcosa in più del suo onore.
Il giovane cananeo entrò nella stanza della padrona con lo sguardo basso e quell'espressione serena che lo caratterizzava.
"Mi hai fatto chiamare padrona?" chiese lo schiavo.
"Vieni Giuseppe-disse la donna- non temere, siediti con me" disse lei.
Giuseppe si sedette su uno degli sgabelli posti davanti al seggio della signora. Era un giovane molto diverso da Potifar: creativo, gentile, timido e anche vigoroso.
"Ormai è da molto che sei con noi. Ti trovi bene?"
"Padrona...tu e il padrone Potifar siete molto buoni con me. Ho imparato a stare a mio agio qui con voi e sono molto grato per la fiducia che mi dimostrate."
"Anche noi siamo molto lieti e grati per tutto ciò che fai. Il dio Ptah, patrono del mio sposo e di questa casa, ci ha benedetti con il tuo talento e la tua lealtà."
La donna si alzò e si avvicinò al giovane.
"So che tu però veneri un Dio molto diverso dai nostri. Perché non me ne parli?"
"Lui ha un nome che non si deve pronunciare ed è invisibile."
"Invisibile?"
"Sì, mio padre mi ha insegnato che il suo vero volto nessun uomo vivente lo potrà mai vedere" disse Giuseppe.
"E come fate a rendergli i sacrifici che richiede?"
"Mio padre dice che Dio vuole carità e non sacrifici. Esistono degli insegnamenti che ci sono stati tramandati e seguendoli noi viviamo in maniera onesta e umile così diventa impossibile aver paura di morire."
"Se ti liberassimo...ti piacerebbe tornare nella tua terra?"
Lo schiavo sospirò suscitando ulteriore curiosità alla donna.
"Non credo di poterlo fare padrona...il mio amato padre morirebbe di crepacuore se sapesse..."
"Cosa?" chiese la padrona avvicinandosi al giovane.
"I miei fratelli... loro mi hanno tradito. Mi hanno venduto come schiavo per invidia...e adesso..."
Lei gli poggiò una mano sulla spalla.
"Qui sei al sicuro Giuseppe. Siamo fortunati ad averti con noi."
Giuseppe si alzò intimorito. Temeva le conseguenze di ciò che stava accadendo.
"Padrona...perché mi hai chiesto di venire qui?"
"Perché voglio stare con te, buon Giuseppe" disse lei alzandosi in piedi.
"Padrona non posso."
"Non lo saprà nessuno."
"Il padrone Potifar è un uomo giusto. Io gli sono fedele e mi sono impegnato a rispettarlo, se compissi un atto così indegno ripudierei i miei doveri, la mia lealtà, il mio modo di essere. Non posso fare qualcosa di simile, rinnegando la mia lealtà rinnegherei Dio."
Giuseppe si scosse; la padrona aveva afferrato la sua tunica che le rimase in mano.
"Unisciti a me!" disse la donna mentre il giovane fuggiva in preda al panico. Il cuore della moglie di Potifar invece era in preda alla rabbia e all'angoscia.
Quella sera Potifar dovette decidere a chi credere: a sua moglie o ad uno schiavo?
Non poteva sapere il generale, che oggi tu, Lettor, avresti saputo chi era Giuseppe il re dei sogni, magari anche il nome di Potifar. Eppure il nome di questa donna, per la sua menzogna, non lo sa nessuno.