sabato 24 dicembre 2016

E pace in terra a tutti quelli di buona volontà

Carlo uscì dall'emporio e assaporò l'aria fresca. Il piccolo paese in provincia di Vicenza in cui la sua famiglia passava le feste era esattamente ciò che gli serviva: campagna, pace, ossigeno a volontà e silenzio. Ci stava davvero bene.
Appena uscito dall'emporio Carlo si diresse verso la strada di casa con la sua spesa: formaggio grana grattugiato e due confezioni di sfoglia velo per il pasticcio di radicchio che sua madre avrebbe preparato per il giorno dopo, il giorno di Natale.
Una vigilia serena, bella e tranquilla.
Carlo sollevò lo sguardo e vide qualcosa che non si aspettava: un pappagallo, verde e con delle macchie rosse sugli occhi che volava tra le case.
"Ma cosa ci fa un pappagallo in Veneto?" pensò Carlo.
"Un randagio...povera bestia" disse una voce accanto a lui.
Carlo si voltò di scatto e vide con sorpresa un uomo con il suo stesso volto e gli occhiali da sole.
"Ma che...?"
"Non ricordi?"
A Carlo tornò in mente il Narratore che gli aveva promesso di tornare.
"Era un bel po' che non ti si vedeva" disse Carlo.
"Ho avuto molto da fare e anche tu."
"Beh...tanti auguri!"
"Grazie. Pronto per il capitolo finale di questa storia?"
"Veramente..." prima di poter dire qualcos'altro Carlo si rese conto di essere in mezzo ad un territorio desertico, anche se non proprio caldo. Si vedevano delle macchie di verde a distanza ed era quasi il tramonto. 
"Dove siamo?"
"Dove sei tu devi dire! Comunque lo saprai abbastanza presto. Intanto dimmi: che cosa hai imparato dalle storie che ti ho fatto raccontare?"
"Imparato? Erano storie che conosco molto bene e avevano la loro morale, il loro valore..."
"Eppure non hai agito come tale, non sembri aver colto il loro messaggio...ma vedremo se adesso sarà possibile per te cogliere davvero qualcosa."
"Verrai con me?"
"Certo...questa è la storia per eccellenza: fine e principio. L'hai sentita per tutta la tua vita, innumerevoli volte, e adesso vedremo se la saprai riconoscere. Dobbiamo andare di là, verso nord!"
Il Narratore indicò una direzione e si incamminò.
"Mi dici dove siamo per favore?" 
"Ci sei già stato qui. È la terra di Giudea, governata dal re Erode il Grande. Di là, ad Occidente, il grande Impero Romano sta prendendo il comando del Mare Interno con Ottaviano Augusto che getta le basi che Cesare ha sognato per il futuro. Ad Oriente il Gran Re dei Parti domina un potente popolo pronto ad ostacolare l'avanzata di Roma. Qui, nel mezzo, sta per venire qualcuno che li vincerà e li salverà tutti."
Dopo il racconto del Narratore Carlo sollevò lo sguardo e vide qualcosa, ben lontano dal Sole ormai rosso, dietro alle nuvole nell'azzurro scuro c'era una stella che brillava più di tutte le altre.
"Mi stai dicendo che quella è...?"
"Sì Carlo. Noi siamo diretti sotto quella stella e farai meglio a tenere il passo."
Era difficile perché il Narratore camminava molto velocemente.
"Ma sei sicuro che passeremo inosservati?" chiese Carlo.
"Quando saremo sotto la stella ci sarà uno spettacolo ben più grande da vedere e nessuno guarderà i tuoi abiti o i tuoi occhiali."
"Ma tu mi stai prendendo in giro? Siamo davvero al primo Natale?"
"Visto come sono arrivato da te la prima volta posso capire che tu abbia qualche dubbio ma ti assicuro che non ho intenzione di scherzare con te. Adesso muoviti!"
"Puoi rallentare per favore?"
"No! Non dobbiamo perdere tempo e poi così magari calerai un po' quella pancia!"
Camminarono per diverse ore vedendo diverse carovane composte da uomini e donne di tutte le età che tiravano cammelli e asini carichi di diversi bagagli e passeggeri. Carlo rimase estasiato alla vista di alcuni uomini a cavallo con mantelli rossi e pennacchi sugli elmi.
"Quelli sono..."
"Sì! Romani, soldati del Grande Impero che stanno agendo per controllare la frontiera e fare sì che ovunque sia fatta la volontà dell'Imperatore."
"Ma è magnifico...veri cavalieri e veri...."
"MUOVITI!"
Carlo si scosse ricominciò a correre raggiungendo il suo accompagnatore.
"Lo so che la storia di quegli uomini è la tua passione, ma tra poco vedrai qualcosa di molto più importante, qualcosa di magnifico."
"Credi che non lo sappia? Ma cosa vedremo se...?"
"Guarda lì invece di parlare!"
Carlo vide una grossa carovana con tre vessilli che portavano il simbolo di tre nobili, tre principi importanti dell'Oriente. Uomini saggi e molto potenti che seguivano quella stella molto più luminosa di tutto il firmamento.
Erano molto lontani e presto li persero di vista, da lontano si vedevano delle luci: ormai l'oscurità era quasi del tutto calata. 
"Quella è Betlemme?"
"Esatto, anche se molto diversa da quella che conosci, quella che hai visitato nel tuo presente. Anche oggi si può dire che ha visto tempi migliori, ma nessun momento paragonabile a questa notte. Guarda lassù! Sulla collina!"
A poca distanza dalla città, sulla campagna, alcuni uomini stavano guardando in alto, verso il cielo. Erano illuminati come se il Sole stesse ancora brillando su di loro.
"Chi sono loro?"
"I pastori, gli umili, gli ignoranti, i pezzenti. Nella tua epoca li chiamerebbero i falliti. Coloro a cui è destinato il Salvatore che oggi sta nascendo: il Messaggero è andato a dir loro cosa sta per accadere e di andare alla grotta. Ci arriveremo giusto in tempo."
La grotta di Betlemme. Stavano andando proprio lì e non erano i soli.
"Sai che la grotta in cui quella famiglia si è rifugiata è parte di una casa? In quest'epoca la casa è divisa in alloggi e stalla che ospita gli animali e gli alti beni della famiglia. Quando serve questa ospita anche gli ospiti e i rifugiati. Maria e Giuseppe non sono stati rifiutati, sono stati accolti molto generosamente. Almeno quanto quel dono che stanno per ricevere."
Carlo osservò la casa che il Narratore stava indicando. Diverse persone stavano arrivando intorno ad essa e si raggruppavano mentre si udivano i versi di un bambino appena nato che assaporava l'aria per la prima volta.
"Posso?" chiese Carlo.
"Non dare nell'occhio però" rispose il Narratore con un ghigno.
Carlo si avvicinò e si fece spazio tra i pastori, le donne e i bambini che osservavano quella scena. 
Un uomo alto e forte con una folta barba nera proteggeva una piccola donna molto giovane, bella e dall'aria stanca ma con un'aria così felice e amorevole davanti al bimbo che giaceva in una mangiatoia al centro della stalla.
Carlo riconobbe i tre uomini che aveva visto a capo della carovana nel deserto: erano prostrati al cospetto del bimbo. Aprirono tre scrigni e mostravano i loro doni.
"A questo bambino io porto in dono l'oro perché è il vero Re del mondo" disse il primo.
"A questo bambino porto in dono l'incenso che, se bruciato, emana l'aroma delle preghiere degli uomini. Segno del fatto che lui è il figlio di Dio" disse il secondo.
Il terzo fece un sospiro e disse: "A questo bambino io porto in dono la mirra, che protegge dalle malattie e rende sani i corpi. Per rendere onore al suo dono e al suo sacrificio."
Il bambino sembrò sorridere.
Carlo chiuse gli occhi e li riaprì nel deserto: stesso posto e tempo in cui era iniziato il viaggio.
"Ma cosa...?"
"Spero davvero che tu abbia imparato qualcosa questa volta" disse il Narratore.
"Grazie...io...io cercherò di ricordare il vero significato di questa storia. Ma...ma tu...chi sei?"
Il Narratore sorrise. Era strano per Carlo vedere il suo stesso voltò sorridergli. Lentamente il Narratore si tolse gli occhiali e una luce intensa si propagò intorno ad entrambi.
"Non chi qualcuno potrebbe pensare. Spero davvero che tu possa essere ispirato da ciò che accadde e che accadrà ancora."
"Dove ti trovo se ho bisogno di parlati ancora?"
"Dove mi trovano tutti caro Carlo. Ricorda solo queste parole, quelle che furono pronunciate durante il primo Natale: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra a tutti gli uomini di buona volontà. Ricorda la storia di quel bambino e ciò che ti può insegnare."
"Ma perché a me?"
"Perché anche tu racconterai questa storia. E buon Natale!"
Carlo chiuse gli occhi e li riaprì in mezzo a quella strada, davanti all'emporio con il sacchetto della spesa in mano. Un piccolo uomo, in un grande mondo con delle storie da raccontare.
"Buon Natale" disse Carlo a chiunque stesse ascoltando o leggendo.

mercoledì 21 dicembre 2016

Una storia d'Inverno

Oggi è il 21 di dicembre, il solstizio d'inverno, il giorno più breve dell'anno, il momento in cui il nostro pianeta si ritrova nel punto della sua orbita più vicino al Sole. Oggi inizia l'Inverno, una stagione molto importante perché è il momento in cui tutto si ferma: il raccolto, la marcia, gli intrighi, avvolte anche la vita. Non si ferma il battito del cuore.
L'Inverno serve per andare oltre, per prepararsi al nuovo anno e riprendere le forze dopo quello appena vissuto. In questo momento, con il freddo, le molecole rallentano e si fermano, mentre noi diventiamo più veloci nel tentativo di sopravvivere. Il freddo ci rende più svegli, più attenti, più pericolosi certe volte. In questo periodo intere razze fuggono verso altre terre calde, alcune si mettono in stasi, un letargo che li salva da un periodo privo di cibo e rifugio, altre ancora si estinguono lasciando nascosti i semi del loro genere che rinasceranno quando il clima tornerà ad essere ospitale per la loro razza. 
Goditi la grandezza e la poesia di questa stagione Lettor, perché è un periodo con le giornate più belle: i giorni in cui il Sole non è mai troppo forte, in cui siamo più svegli, più attenti e certe volte più interessati a cercare il sostegno dei nostri simili.
Buon solstizio d'Inverno Lettor.


sabato 17 dicembre 2016

Il re discendente di eroi

Daniele entrò nella stanza del re con un certo timore; le finestre erano chiuse, ma i raggi del Sole passavano dai vari spiragli sulle persiane, un intenso odore di incenso aleggiava. Il re era sul letto, si contorceva dal dolore, lamentandosi e imprecando. Era molto diverso dal grande sovrano che aveva guidato il paese per più di trent'anni, eppure in Daniele egli incuteva ancora un certo timore.
"Chi è?" chiese il sovrano.
"Grande Erode- disse il servitore che lo stava assistendo- lo scriba che hai convocato."
"Avvicinati!"
Daniele si accostò al letto.
"Hai portato il mio testamento come avevo detto?"
Daniele si affrettò a sedersi e ad estrarre il suo leggio per poi srotolare il prezioso documento.
"Certamente...grande re."
Erode si mise a ridere.
"Dallo a Giovanni!"
Il servitore del re si avvicinò allo scriba e prese il papiro in cui erano riportate le ultime volontà del re.
"Gettalo nel braciere!"
Il servo diligente gettò il testamento tra le braci che prese fuoco.
"Antipa...quel pusillanime... non siederà sul mio trono...non avrà Gerusalemme..."
Il re si girò sul fianco e guardò il povero Daniele con una smorfia di dolore. Dopo pochi istanti iniziò a sorridere.
"Sei giovane" disse il re.
"Sono al servizio del mio re" rispose Daniele senza sapere cos'altro dire.
Erode sospirò.
"Quanti anni hai?"
"Ventidue mio re."
"Tre anni di meno di quelli che avevo io quando ho iniziato a governare la Giudea...eppure non sono mai stato un Giudeo..."
"Non capisco mio re."
"Come ti chiami?"
Daniele era perplesso.
"Ti ho chiesto...qual'è il tuo nome" Erode si alzò su un braccio. Anche se vecchio e malato era ancora un uomo molto possente.
"Daniele...mio re."
"Cosa significa il tuo nome?"
Daniele sospirò e rispose: "Dio è il mio giudice."
"E cosa significa il mio?"
Daniele abbassò lo sguardo.
"Cosa significa il mio nome?" chiese ancora il re.
"Chiedo perdono mio re...non lo conosco."
"Certo che no. Tu hai un nome d'Israele...il nome di un profeta. Il mio nome, Erode, significa discendente degli eroi. Si tratta di un nome greco...mio padre era molto amico dei Greci e ne apprezzava la cultura, proprio come me."
Daniele, in effetti, sapeva molto bene tutto questo, ma aveva preferito non dire niente poiché in passato il sovrano si era dimostrato molto irascibile quando si parlava delle sue origini.
"Tanto lo vedo chiaramente nei tuoi occhi...anche in quelli di Giovanni e di tutte le mogli che ho avuto. Io, un figlio di Edom, messo a regnare sul popolo di Giuda, messo qui dall'Imperatore...dai pagani."
Daniele cominciava a chiedersi cosa ci facesse lì.
"E' vero: io sono un edomita, un discendente di Esaù e non di Israele, da parte di padre, e mia madre, Cipro, era del popolo dei Nabatei e quindi era dei discendenti di Ismaele. Ma non era Esaù discendente di Abramo come suo fratello Giacobbe? Non è forse vero che Giacobbe, poi detto Israele, rubò ad Esaù la sua eredità? E Ismaele non era forse il primo dei nati dei figli di Abramo? Il fratello maggiore di Isacco, padre di Israele? E allora perché si maledice me? Perché sono un edomita, con madre nabatea e regno sui Giudei. Non lo capite che se non ero io erano i Parti, i Romani o i Greci a dominarci e non avreste avuto nemmeno qualcuno da chiamare re...voi Giudei."
"In che modo posso servire il mio re?" chiese il giovane scriba.
Erode si era di nuovo rigirato guardando il soffitto.
"A chi non ho mai raccontato di quando ho incontrato lui? Cesare...L'Augusto che oggi domina il mondo...un uomo straordinario, potente, intelligente...eppure molto gracile. Ha una mente che è la sua vera arma."
Daniele estrasse una tavoletta di terracotta e un pennino di osso. Teneva la schiena dritta, con il leggio appoggiato alle sue ginocchia e attento a sentire cosa diceva il re.
"Lo incontrai a Roma- continuò Erode- lui e Marco Antonio, all'epoca erano ancora alleati, ma si vedeva chiaramente che Marco Antonio era il condottiero, il soldato. Eppure aveva una mente debole, a differenza di Cesare Ottaviano. Erano opposti l'uno all'altro. Marco Antonio mi fece re di Giudea, ricordandosi di quando avevo combattuto Cecilio Basso, nemico di Cesare, in Siria. Poi la regina Cleopatra volle la mia testa e queste terre, ma Antonio non poteva dargliele."
"Erano in guerra contro Ottaviano a quei tempi, non è vero?"
Il re guardò Daniele, quasi sorpreso del suo interessamento, poi sorrise.
"Già...devo ammettere che fui sorpreso quando giunse la notizia della loro sconfitta ad Azio...ma è chiaro che la mente vince sempre sulla forza..."
"Ma il Principe Ottaviano sapeva che il mio re era stato un alleato di Antonio."
"Dici bene Daniele, ma il Principe sapeva anche che Cleopatra non lo era affatto, così lo raggiunsi sull'isola di Rodi...lo trovai lì e gli chiesi di lasciarmi fare la sola cosa che ho sempre saputo fare..."
Daniele si mostrò molto interessato.
"Il re...il re di Giudea nel nome del grande Cesare che o ci proteggeva o ci distruggeva."
"Ma il mio re come ha convinto il Principe Ottaviano a lasciarlo sul trono di Giuda, in una posizione così strategica ad Oriente?"
"Gli ho solo detto la verità. Ebbene sì: gli dissi che ero stato alleato con Marco Antonio solo perché mi aveva fatto diventare re di Gerusalemme e che se mi avesse lasciato al mio posto avrei continuato a mantenere l'ordine in questa terra così importante. Lui mi diede una pacca sulla spalla e poi disse ai membri della sua corte di salutare Erode, il grande re di Giudea."
Erode si girò di nuovo sul fianco, questa volta dando le spalle allo scriba.
"Durante quel viaggio mi fu detto che mia moglie, la mia amata Mariamne, aveva complottato contro di me. Lei giurava il contrario, ma mia madre e mia sorella passarono interi giorni a sussurrarmi all'orecchio...tradimento...tradimento....morte e caos...Mariamne....mia splendida Mariamne....come posso sperare nel perdono per aver messo a morte il mio amore?"
Il re tornò a guardare verso l'alto. Daniele notò delle lacrime lungo il suo viso.
"Tu hai moglie Daniele?"
"Sì...grande re."
"E la ami?"
"Sì...con tutto il cuore."
"E allora ringrazia di non essere un re. Io darei via il mio regno, le mie ricchezze, i miei anni di gloria per avere una vita da scriba al fianco della mia Mariamne."
"Eppure il mio re l'ha messa a morte."
"NON HO DI CERTO BISOGNO CHE TU ME LO RICORDI!"
Daniele si rese conto di aver osato troppo.
"TU NON LO SAI...TU NON SAI COSA VUOL DIRE! Un re non si fida di nessuno, non c'è affetto, non c'è lealtà: persino la madre di un re è talmente invidiosa del suo potere da complottare per strappargliene un po'. Non potevo evitare di condannare Mariamne, così come non ho potuto evitare di mettere a morte i miei figli."
Daniele si ricompose, poi osservò quel sovrano tanto discusso. Ebbe pietà di lui, non sapeva perché ma quel vecchio malato e potentissimo gli suscitava compassione.
"Il popolo di Giuda non smetterà mai di ringraziare il grande Erode per avergli ridato il Tempio" disse lo scriba.
"Non ho bisogno della tua pietà. Io ho solo costruito un edificio, il popolo lo ha consacrato. Se è per questo ho anche costruito delle fortezze imprendibili in tutto il paese e una città, Cesarea, che ho donato a Cesare Ottaviano. Ma tu sai bene che non è per queste cose che verrò ricordato."
"Betlemme" mormorò Daniele.
"Betlemme- disse il re- Anche quella notte non ebbi scelta. Era scritto che Rachele doveva piangere i suoi figli. Cosa dovevo fare? Mi dissero che quella notte sarebbe nato un bambino destinato a diventare il re. Stranieri saggi e nobili che andavano a cercare un sovrano tra i pastori. Anche un profeta morto da quattrocento anni diceva che quella notte sarebbe nato un re."
Daniele si ricordava di quel passo del profeta Michea in cui si parlava di colui che sarebbe uscito da Betlemme per condurre il popolo di Israele.
"Ma un re non può nascere a caso tra i pastori. Il re può essere solo figlio di un re. Se avessi lasciato vivere anche un solo bambino di quel villaggio i miei nemici lo avrebbero usato contro di me e i miei successori. Questo avrebbe minato anche i nostri rapporti con i Romani: il Principe Ottaviano avrebbe mandato le sue legioni a riportare l'ordine con la forza devastando il paese e probabilmente anche i Parti ne avrebbero approfittato per invadere questo regno e ridurre il popolo in schiavitù e chissà quanti bimbi innocenti sarebbero morti nella guerra che ne sarebbe derivata tra Roma e il Regno Partico. Cosa ne sanno coloro che parlano di una strage di innocenti? COSA NE SANNO?"
Daniele rimase inorridito, non tanto per le parole del re, ma per la sua logica.
"Cosa ne sapete voi, di cosa deve fare un sovrano per proteggere il suo paese? Il re è il capo supremo di un popolo e come tale è responsabile della sua sicurezza e delle sue colpe. Non è forse così? Dimmi Daniele, non è forse questo il punto?"
"Io non posso comprendere. Però so che, anche senza approvarle, non posso giudicare le scelte fatte dal mio re, perché non so quali siano state le sue e quali egli sia stato costretto a prendere. Io sono qui solo per servire il mio signore."
Erode tornò ad osservarlo, sembrava più sereno. Forse capire di avere a che fare con un uomo onesto gli aveva ridato un po' di forza.
"Daniele...porterò con me il tuo nome. Ora scrivi!"
Lo scriba fu pronto con il pennino sulla tavoletta d'argilla.
"Io, Erode Ascalonita...Erode il Grande, re di Giudea per volontà del Principe Cesare Ottaviano Augusto, dichiaro mi figlio Erode Archelao principe ereditario e re di Giudea e Samaria, mio figlio Erode Antipa riceva in eredità il dominio di Galilea e Perea su cui regnerà con il titolo di Tetrarca. Stesso titolo e stesse priorità trasmetto a mio figlio Erode Filippo che avrà così potere su Iturea, Batanea e su tutti i territori circostanti che fanno oggi parte del mio regno. I miei figli avranno così questa eredità che comprende la divisione del mio regno e del potere che essi eserciteranno a condizione che essi giurino al Principe Cesare Ottaviano Augusto, Primo Cittadino della Repubblica Romana e Imperatore, la stessa fedeltà che io ho mostrato lui, nella speranza che egli approvi questo mio testamento in quanto protettore del nostro paese. Questa è la mia volontà. Hai scritto?"
"Ho scritto mio re."
"Allora riportalo su una pergamena e sbrigati. Non ho ancora molto tempo per firmare."
Daniele eseguì il suo compito giurando solennemente di non dimenticare e di non giudicare mai più quel uomo, il suo re, Erode il Grande.

giovedì 8 dicembre 2016

Auguri Lettor

Non voglio raccontare delle storie, non voglio fantasticare o improvvisare. Lettor oggi ti voglio solo augurare un buon giorno dell'Immacolata. È un giorno molto importante, ci ricorda qualcosa di prezioso. Il dogma dell'Immacolata Concezione che mantenne Maria preservata dal peccato originale. La Chiesa Cattolica indica questa solennità come il principio della salvezza per tutta l'Umanità.  Questo evento è fatto per ricordare l'identità e la dignità della nostra civiltà molto più grande, dignitosa e nobile di quanto l'ignoranza voglia far credere.
Questo non è solo un ponte, è un'identità.
Buon ponte Lettor!
La storia continua domani.

mercoledì 7 dicembre 2016

Cap. III: il re barbaro

La sera era arrivata finalmente e Carlo aveva tutta l’intenzione di prepararsi una carbonara e di accompagnarla con un buon film. Seduto, finalmente dopo la preparazione, ammirò quell’opera d’arte di colore e sapore al suo cospetto. Infilzò con la forchetta il primo boccone, lo avvicinò alla bocca aperta ma, prima di assaporare la cena…
Ad interromperlo quella volta non fu come al solito il citofono suonato da un vicino che aveva sbagliato porta o il telefono con dall’altra parte i genitori, la sorella, un collega in cerca di consiglio, o un call center che chiedeva di parlare con la donna di casa, ma una voce possente alle sue spalle.
“PRONTO!”
Carlo sobbalzò e si voltò di scatto. Alle sue spalle c’era un uomo alto, con una lunga barba e una chioma di capelli corvini. Il naso rotto, una cicatrice sulla guancia sinistra e l’occhio destro mezzo chiuso e gonfio facevano capire che doveva trattarsi di un soldato. Indossava infatti un’armatura a scaglie e un mantello nero che gli arrivava fino al bacino.
“Cos’hai detto?” chiese Carlo.
“Non è così che si dice? Devi essere pronto! È il momento!”
“Pronto per…aspetta…sei il nuovo…”
“Sì- disse l’ospite- sono venuto per farti vedere ciò che imparai io.”
Carlo appoggiò la forchetta e si alzò. Era davvero emozionato per quello che stava per accadere.
“Posso chiederti chi sei?” chiese Carlo.
“Quando ero vivo, ed è passato moltissimo tempo…se non sbaglio…mi chiamavo Genserico ed ero il re del popolo dei Vandali.”
Carlo indietreggiò sorpreso.
“Genserico? Re dei Vandali? Colui che saccheggiò Roma?”
“Quello ero io.”
“Ma come…?”
Genserico si diresse verso la porta dell’appartamento e la aprì.
“Non dobbiamo perdere tempo. Vieni!”
Carlo rimase interdetto per qualche secondo. Era molto indeciso, non era sicuro di voler seguire un… un barbaro. Ma come poteva resistere?
Varcata la soglia Carlo si ritrovò in un luogo molto caldo, il sole picchiava molto forte il terreno era sabbioso, eppure da lontano si sentivano le onde del mare. Una volta abituatosi alla luce gli fu possibile vedere delle tende: era in mezzo ad un accampamento enorme, dove si aggiravano uomini, donne e bambini, tutti armati.
“Seguimi” disse Genserico comparso al fianco di Carlo.
“Dove siamo?” chiese questo incamminandosi.
“In un accampamento che la mia gente montò in Africa, vicino alla città di Ippona, che si trova sulle colline alle nostre spalle” disse il re dei Vandali indicando dietro di loro una città fortificata da cui si innalzavano colonne di fumo nero.
“Ippona…è l’assedio di Ippona” disse Carlo.
Si trovava in Africa nel 430 d.C., anno in cui i Vandali stavano conquistando quelle provincie romane africane che sarebbero diventate il loro regno.
“Sì… l’assedio più difficile della mia vita. In questo giorno incontrai in segreto un uomo. Nessuno ci vedrà, ma tu vedrai e sentirai ciò che ho imparato oggi.”
Si avvicinarono ad una tenda più grande e meglio sorvegliata delle altre, entrarono senza che le guardie battessero ciglio e videro, seduto su un grosso sgabello di legno, un Genserico più giovane che osservava un uomo anziano, vestito di abiti bianchi, con un manto rosso e un portamento davvero solenne.
“Chi è quello?” chiese Carlo.
“L’uomo migliore che abbia mai conosciuto quando ero vivo. Il vescovo di Ippona, egli aveva uno spirito di sapienza sul suo capo.”
Carlo non ci poteva credere.
“Il vescovo di Ippona?- disse- Sant’Agostino? Il santo filosofo? Autore de La città di Dio? Uno degli uomini più saggi che la storia dell’intera Umanità abbia mai conosciuto?”
“Proprio lui, era anche un politico eccellente…”
“Un maestro dell’arte oratoria secondo le fonti.”
“Ancora oggi parlate e leggete di lui…e di me” disse Genserico con un tono di orgoglio.
“Cosa vuoi?” chiese il Genserico giovane.
“Che tu fermi l’assedio e che ti riconcili con il generale Bonifacio. Lui poi stringerà con te una nuova alleanza supportata dall’Imperatore e i nostri popoli torneranno a prosperare” rispose il santo per niente intimorito dal re guerriero che aveva davanti.
“Perché dovrei allearmi di nuovo con i Romani?” disse il Vandalo con un ghigno.
“Perché salveresti la tua gente.”
“Ormai dovresti aver capito che Roma è troppo debole per scacciare me e il mio esercito dall’Africa. Non c’è nessuna forza al servizio di Bonifacio e dell’Imperatore che possa distruggere i Vandali.”
“Infatti io non parlo di salvare i Vandali dalla vendetta di Roma, ma dai Vandali stessi.”
“Che vuoi dire?”
Sant’Agostino sospirò e rispose: “Risparmia la mia gente e io farò di te un re.”
Il barbaro si sciolse in una grassa risata di scherno.
“Gli anni devono averti reso confuso vecchio. Io sono già un re. Sono il re del popolo che ha attraversato le terre dei Germani, la Gallia, la Spagna e che ha strappato a Roma il dominio dell’Africa.”
“E dopo?”
Genserico guardò Agostino perplesso.
“Dopo cosa?”
“Cosa accadrà quando il tuo popolo non avrà più terre da conquistare? Quando tu sarai troppo vecchio per fare nuove conquiste e quando morirai? Cosa ne sarà di quest’orda di razziatori e raminghi che hai alle tue spalle?”
“Come osi definire così il mio popolo?”
“E tu come osi ridurlo a questo?”
Il re era molto irato, però sembrava iniziare ad ascoltare con attenzione il vescovo.
“Così disse il signore Gesù: Che senso ha per un uomo guadagnare il mondo se in cambio perde sé stesso? Genserico, la tua gente rischia di perdere la sua identità, il senso della sua esistenza e quando la guida forte che tu sei le verrà tolta sarà circondata da popoli che la temono e la odiano. Perciò io ti chiedo di fermarti, di convincere il tuo popolo a trovare altro che la legge di Roma e la fede in Dio possono darvi.”
“Cosa ci guadagnerei?”
“Un futuro! Un avvenire in cui i tuoi discendenti potranno dirsi re di un grande popolo.”
Carlo batté le palpebre e si ritrovò nel suo appartamento, esattamente sei secondi dopo la sua partenza.
“Hai capito la lezione?” chiese lo spirito di Genserico.
“Credo di sì, ma tu no. Per niente!”
“Tu non c’eri, non sai cosa accadde. Lui, il vescovo, morì alcuni giorni dopo quel incontro e i Romani ci attaccarono alle spalle, li respingemmo e il mio popolo pretese vendetta.”
“E conquistaste Ippona.”
Genserico sospirò.
“Ma leggemmo i suoi libri- disse- e non solo noi. Imparammo di nuovo sia dai Romani che da Agostino e così costruimmo un regno, una patria. Ancora oggi si parla di noi…di me…nel modo che so di aver meritato.”
Genserico si diresse verso la porta.
“Io non ti perdonerò mai per aver saccheggiato Roma e distrutto il futuro che questo mondo poteva avere” disse Carlo.
“Futuro? Come ho detto tu non c’eri. La vera Roma, il vero Impero che tu ami tanto, erano già stati uccisi in quel tempo e non fui io a dare a quella realtà il colpo di grazia. Credimi avrei tanto voluto farne parte anch’io. Dovevo fare ciò che era giusto per il mio popolo, o che almeno lo sembrava in quel periodo. Ma credi che i Giudei potranno mai perdonare i Romani per aver distrutto la loro Città Santa? E i Romei potranno mai perdonare ai Turchi di avergli rubato Costantinopoli? E gli Arabi potranno mai perdonare ai Mongoli il sacco di Bagdad e della terra che a loro volta avevano sottratto ai Persiani? Almeno tu hai il ricordo dei tuoi avi e di quel vero Impero che la tua gente può sognare e rifondare ancora e ancora. Ogni volta cadrà e poi risorgerà. Ma come mi disse Agostino, senz’anima, nessuna grande opera è destinata ai posteri.”
Genserico aprì la porta.
“Spero che tu lo abbia imparato e che abbia ciò che io non ebbi: l’occasione di scoprirlo” disse il re barbaro prima di chiudere la porta.