mercoledì 7 dicembre 2016

Cap. III: il re barbaro

La sera era arrivata finalmente e Carlo aveva tutta l’intenzione di prepararsi una carbonara e di accompagnarla con un buon film. Seduto, finalmente dopo la preparazione, ammirò quell’opera d’arte di colore e sapore al suo cospetto. Infilzò con la forchetta il primo boccone, lo avvicinò alla bocca aperta ma, prima di assaporare la cena…
Ad interromperlo quella volta non fu come al solito il citofono suonato da un vicino che aveva sbagliato porta o il telefono con dall’altra parte i genitori, la sorella, un collega in cerca di consiglio, o un call center che chiedeva di parlare con la donna di casa, ma una voce possente alle sue spalle.
“PRONTO!”
Carlo sobbalzò e si voltò di scatto. Alle sue spalle c’era un uomo alto, con una lunga barba e una chioma di capelli corvini. Il naso rotto, una cicatrice sulla guancia sinistra e l’occhio destro mezzo chiuso e gonfio facevano capire che doveva trattarsi di un soldato. Indossava infatti un’armatura a scaglie e un mantello nero che gli arrivava fino al bacino.
“Cos’hai detto?” chiese Carlo.
“Non è così che si dice? Devi essere pronto! È il momento!”
“Pronto per…aspetta…sei il nuovo…”
“Sì- disse l’ospite- sono venuto per farti vedere ciò che imparai io.”
Carlo appoggiò la forchetta e si alzò. Era davvero emozionato per quello che stava per accadere.
“Posso chiederti chi sei?” chiese Carlo.
“Quando ero vivo, ed è passato moltissimo tempo…se non sbaglio…mi chiamavo Genserico ed ero il re del popolo dei Vandali.”
Carlo indietreggiò sorpreso.
“Genserico? Re dei Vandali? Colui che saccheggiò Roma?”
“Quello ero io.”
“Ma come…?”
Genserico si diresse verso la porta dell’appartamento e la aprì.
“Non dobbiamo perdere tempo. Vieni!”
Carlo rimase interdetto per qualche secondo. Era molto indeciso, non era sicuro di voler seguire un… un barbaro. Ma come poteva resistere?
Varcata la soglia Carlo si ritrovò in un luogo molto caldo, il sole picchiava molto forte il terreno era sabbioso, eppure da lontano si sentivano le onde del mare. Una volta abituatosi alla luce gli fu possibile vedere delle tende: era in mezzo ad un accampamento enorme, dove si aggiravano uomini, donne e bambini, tutti armati.
“Seguimi” disse Genserico comparso al fianco di Carlo.
“Dove siamo?” chiese questo incamminandosi.
“In un accampamento che la mia gente montò in Africa, vicino alla città di Ippona, che si trova sulle colline alle nostre spalle” disse il re dei Vandali indicando dietro di loro una città fortificata da cui si innalzavano colonne di fumo nero.
“Ippona…è l’assedio di Ippona” disse Carlo.
Si trovava in Africa nel 430 d.C., anno in cui i Vandali stavano conquistando quelle provincie romane africane che sarebbero diventate il loro regno.
“Sì… l’assedio più difficile della mia vita. In questo giorno incontrai in segreto un uomo. Nessuno ci vedrà, ma tu vedrai e sentirai ciò che ho imparato oggi.”
Si avvicinarono ad una tenda più grande e meglio sorvegliata delle altre, entrarono senza che le guardie battessero ciglio e videro, seduto su un grosso sgabello di legno, un Genserico più giovane che osservava un uomo anziano, vestito di abiti bianchi, con un manto rosso e un portamento davvero solenne.
“Chi è quello?” chiese Carlo.
“L’uomo migliore che abbia mai conosciuto quando ero vivo. Il vescovo di Ippona, egli aveva uno spirito di sapienza sul suo capo.”
Carlo non ci poteva credere.
“Il vescovo di Ippona?- disse- Sant’Agostino? Il santo filosofo? Autore de La città di Dio? Uno degli uomini più saggi che la storia dell’intera Umanità abbia mai conosciuto?”
“Proprio lui, era anche un politico eccellente…”
“Un maestro dell’arte oratoria secondo le fonti.”
“Ancora oggi parlate e leggete di lui…e di me” disse Genserico con un tono di orgoglio.
“Cosa vuoi?” chiese il Genserico giovane.
“Che tu fermi l’assedio e che ti riconcili con il generale Bonifacio. Lui poi stringerà con te una nuova alleanza supportata dall’Imperatore e i nostri popoli torneranno a prosperare” rispose il santo per niente intimorito dal re guerriero che aveva davanti.
“Perché dovrei allearmi di nuovo con i Romani?” disse il Vandalo con un ghigno.
“Perché salveresti la tua gente.”
“Ormai dovresti aver capito che Roma è troppo debole per scacciare me e il mio esercito dall’Africa. Non c’è nessuna forza al servizio di Bonifacio e dell’Imperatore che possa distruggere i Vandali.”
“Infatti io non parlo di salvare i Vandali dalla vendetta di Roma, ma dai Vandali stessi.”
“Che vuoi dire?”
Sant’Agostino sospirò e rispose: “Risparmia la mia gente e io farò di te un re.”
Il barbaro si sciolse in una grassa risata di scherno.
“Gli anni devono averti reso confuso vecchio. Io sono già un re. Sono il re del popolo che ha attraversato le terre dei Germani, la Gallia, la Spagna e che ha strappato a Roma il dominio dell’Africa.”
“E dopo?”
Genserico guardò Agostino perplesso.
“Dopo cosa?”
“Cosa accadrà quando il tuo popolo non avrà più terre da conquistare? Quando tu sarai troppo vecchio per fare nuove conquiste e quando morirai? Cosa ne sarà di quest’orda di razziatori e raminghi che hai alle tue spalle?”
“Come osi definire così il mio popolo?”
“E tu come osi ridurlo a questo?”
Il re era molto irato, però sembrava iniziare ad ascoltare con attenzione il vescovo.
“Così disse il signore Gesù: Che senso ha per un uomo guadagnare il mondo se in cambio perde sé stesso? Genserico, la tua gente rischia di perdere la sua identità, il senso della sua esistenza e quando la guida forte che tu sei le verrà tolta sarà circondata da popoli che la temono e la odiano. Perciò io ti chiedo di fermarti, di convincere il tuo popolo a trovare altro che la legge di Roma e la fede in Dio possono darvi.”
“Cosa ci guadagnerei?”
“Un futuro! Un avvenire in cui i tuoi discendenti potranno dirsi re di un grande popolo.”
Carlo batté le palpebre e si ritrovò nel suo appartamento, esattamente sei secondi dopo la sua partenza.
“Hai capito la lezione?” chiese lo spirito di Genserico.
“Credo di sì, ma tu no. Per niente!”
“Tu non c’eri, non sai cosa accadde. Lui, il vescovo, morì alcuni giorni dopo quel incontro e i Romani ci attaccarono alle spalle, li respingemmo e il mio popolo pretese vendetta.”
“E conquistaste Ippona.”
Genserico sospirò.
“Ma leggemmo i suoi libri- disse- e non solo noi. Imparammo di nuovo sia dai Romani che da Agostino e così costruimmo un regno, una patria. Ancora oggi si parla di noi…di me…nel modo che so di aver meritato.”
Genserico si diresse verso la porta.
“Io non ti perdonerò mai per aver saccheggiato Roma e distrutto il futuro che questo mondo poteva avere” disse Carlo.
“Futuro? Come ho detto tu non c’eri. La vera Roma, il vero Impero che tu ami tanto, erano già stati uccisi in quel tempo e non fui io a dare a quella realtà il colpo di grazia. Credimi avrei tanto voluto farne parte anch’io. Dovevo fare ciò che era giusto per il mio popolo, o che almeno lo sembrava in quel periodo. Ma credi che i Giudei potranno mai perdonare i Romani per aver distrutto la loro Città Santa? E i Romei potranno mai perdonare ai Turchi di avergli rubato Costantinopoli? E gli Arabi potranno mai perdonare ai Mongoli il sacco di Bagdad e della terra che a loro volta avevano sottratto ai Persiani? Almeno tu hai il ricordo dei tuoi avi e di quel vero Impero che la tua gente può sognare e rifondare ancora e ancora. Ogni volta cadrà e poi risorgerà. Ma come mi disse Agostino, senz’anima, nessuna grande opera è destinata ai posteri.”
Genserico aprì la porta.
“Spero che tu lo abbia imparato e che abbia ciò che io non ebbi: l’occasione di scoprirlo” disse il re barbaro prima di chiudere la porta.



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