La sera era arrivata
finalmente e Carlo aveva tutta l’intenzione di prepararsi una carbonara e di
accompagnarla con un buon film. Seduto, finalmente dopo la preparazione, ammirò
quell’opera d’arte di colore e sapore al suo cospetto. Infilzò con la forchetta
il primo boccone, lo avvicinò alla bocca aperta ma, prima di assaporare la cena…
Ad interromperlo
quella volta non fu come al solito il citofono suonato da un vicino che aveva
sbagliato porta o il telefono con dall’altra parte i genitori, la sorella, un
collega in cerca di consiglio, o un call center che chiedeva di parlare con la
donna di casa, ma una voce possente alle sue spalle.
“PRONTO!”
Carlo sobbalzò e si
voltò di scatto. Alle sue spalle c’era un uomo alto, con una lunga barba e una
chioma di capelli corvini. Il naso rotto, una cicatrice sulla guancia sinistra
e l’occhio destro mezzo chiuso e gonfio facevano capire che doveva trattarsi di
un soldato. Indossava infatti un’armatura a scaglie e un mantello nero che gli
arrivava fino al bacino.
“Cos’hai detto?”
chiese Carlo.
“Non è così che si
dice? Devi essere pronto! È il momento!”
“Pronto per…aspetta…sei
il nuovo…”
“Sì- disse l’ospite-
sono venuto per farti vedere ciò che imparai io.”
Carlo appoggiò la
forchetta e si alzò. Era davvero emozionato per quello che stava per accadere.
“Posso chiederti chi
sei?” chiese Carlo.
“Quando ero vivo, ed è
passato moltissimo tempo…se non sbaglio…mi chiamavo Genserico ed ero il re del
popolo dei Vandali.”
Carlo indietreggiò
sorpreso.
“Genserico? Re dei
Vandali? Colui che saccheggiò Roma?”
“Quello ero io.”
“Ma come…?”
Genserico si diresse
verso la porta dell’appartamento e la aprì.
“Non dobbiamo perdere
tempo. Vieni!”
Carlo rimase
interdetto per qualche secondo. Era molto indeciso, non era sicuro di voler
seguire un… un barbaro. Ma come poteva resistere?
Varcata la soglia
Carlo si ritrovò in un luogo molto caldo, il sole picchiava molto forte il
terreno era sabbioso, eppure da lontano si sentivano le onde del mare. Una
volta abituatosi alla luce gli fu possibile vedere delle tende: era in mezzo ad
un accampamento enorme, dove si aggiravano uomini, donne e bambini, tutti
armati.
“Seguimi” disse Genserico
comparso al fianco di Carlo.
“Dove siamo?” chiese
questo incamminandosi.
“In un accampamento
che la mia gente montò in Africa, vicino alla città di Ippona, che si trova
sulle colline alle nostre spalle” disse il re dei Vandali indicando dietro di
loro una città fortificata da cui si innalzavano colonne di fumo nero.
“Ippona…è l’assedio di
Ippona” disse Carlo.
Si trovava in Africa
nel 430 d.C., anno in cui i Vandali stavano conquistando quelle provincie
romane africane che sarebbero diventate il loro regno.
“Sì… l’assedio più
difficile della mia vita. In questo giorno incontrai in segreto un uomo. Nessuno
ci vedrà, ma tu vedrai e sentirai ciò che ho imparato oggi.”
Si avvicinarono ad una
tenda più grande e meglio sorvegliata delle altre, entrarono senza che le
guardie battessero ciglio e videro, seduto su un grosso sgabello di legno, un
Genserico più giovane che osservava un uomo anziano, vestito di abiti bianchi,
con un manto rosso e un portamento davvero solenne.
“Chi è quello?” chiese
Carlo.
“L’uomo migliore che
abbia mai conosciuto quando ero vivo. Il vescovo di Ippona, egli aveva uno
spirito di sapienza sul suo capo.”
Carlo non ci poteva
credere.
“Il vescovo di
Ippona?- disse- Sant’Agostino? Il santo filosofo? Autore de La città di Dio? Uno degli uomini più
saggi che la storia dell’intera Umanità abbia mai conosciuto?”
“Proprio lui, era
anche un politico eccellente…”
“Un maestro dell’arte
oratoria secondo le fonti.”
“Ancora oggi parlate e
leggete di lui…e di me” disse Genserico con un tono di orgoglio.
“Cosa vuoi?” chiese il
Genserico giovane.
“Che tu fermi l’assedio
e che ti riconcili con il generale Bonifacio. Lui poi stringerà con te una
nuova alleanza supportata dall’Imperatore e i nostri popoli torneranno a
prosperare” rispose il santo per niente intimorito dal re guerriero che aveva
davanti.
“Perché dovrei
allearmi di nuovo con i Romani?” disse il Vandalo con un ghigno.
“Perché salveresti la
tua gente.”
“Ormai dovresti aver
capito che Roma è troppo debole per scacciare me e il mio esercito dall’Africa.
Non c’è nessuna forza al servizio di Bonifacio e dell’Imperatore che possa
distruggere i Vandali.”
“Infatti io non parlo
di salvare i Vandali dalla vendetta di Roma, ma dai Vandali stessi.”
“Che vuoi dire?”
Sant’Agostino sospirò
e rispose: “Risparmia la mia gente e io farò di te un re.”
Il barbaro si sciolse
in una grassa risata di scherno.
“Gli anni devono
averti reso confuso vecchio. Io sono già un re. Sono il re del popolo che ha
attraversato le terre dei Germani, la Gallia, la Spagna e che ha strappato a Roma
il dominio dell’Africa.”
“E dopo?”
Genserico guardò
Agostino perplesso.
“Dopo cosa?”
“Cosa accadrà quando
il tuo popolo non avrà più terre da conquistare? Quando tu sarai troppo vecchio
per fare nuove conquiste e quando morirai? Cosa ne sarà di quest’orda di
razziatori e raminghi che hai alle tue spalle?”
“Come osi definire
così il mio popolo?”
“E tu come osi ridurlo
a questo?”
Il re era molto irato,
però sembrava iniziare ad ascoltare con attenzione il vescovo.
“Così disse il signore
Gesù: Che senso ha per un uomo guadagnare
il mondo se in cambio perde sé stesso? Genserico, la tua gente rischia di
perdere la sua identità, il senso della sua esistenza e quando la guida forte
che tu sei le verrà tolta sarà circondata da popoli che la temono e la odiano. Perciò
io ti chiedo di fermarti, di convincere il tuo popolo a trovare altro che la
legge di Roma e la fede in Dio possono darvi.”
“Cosa ci guadagnerei?”
“Un futuro! Un
avvenire in cui i tuoi discendenti potranno dirsi re di un grande popolo.”
Carlo batté le
palpebre e si ritrovò nel suo appartamento, esattamente sei secondi dopo la sua
partenza.
“Hai capito la
lezione?” chiese lo spirito di Genserico.
“Credo di sì, ma tu
no. Per niente!”
“Tu non c’eri, non sai
cosa accadde. Lui, il vescovo, morì alcuni giorni dopo quel incontro e i Romani
ci attaccarono alle spalle, li respingemmo e il mio popolo pretese vendetta.”
“E conquistaste
Ippona.”
Genserico sospirò.
“Ma leggemmo i suoi
libri- disse- e non solo noi. Imparammo di nuovo sia dai Romani che da Agostino
e così costruimmo un regno, una patria. Ancora oggi si parla di noi…di me…nel
modo che so di aver meritato.”
Genserico si diresse
verso la porta.
“Io non ti perdonerò
mai per aver saccheggiato Roma e distrutto il futuro che questo mondo poteva
avere” disse Carlo.
“Futuro? Come ho detto
tu non c’eri. La vera Roma, il vero Impero che tu ami tanto, erano già stati
uccisi in quel tempo e non fui io a dare a quella realtà il colpo di grazia. Credimi
avrei tanto voluto farne parte anch’io. Dovevo fare ciò che era giusto per il mio
popolo, o che almeno lo sembrava in quel periodo. Ma credi che i Giudei
potranno mai perdonare i Romani per aver distrutto la loro Città Santa? E i
Romei potranno mai perdonare ai Turchi di avergli rubato Costantinopoli? E gli
Arabi potranno mai perdonare ai Mongoli il sacco di Bagdad e della terra che a
loro volta avevano sottratto ai Persiani? Almeno tu hai il ricordo dei tuoi avi
e di quel vero Impero che la tua gente può sognare e rifondare ancora e ancora.
Ogni volta cadrà e poi risorgerà. Ma come mi disse Agostino, senz’anima,
nessuna grande opera è destinata ai posteri.”
Genserico aprì la
porta.
“Spero che tu lo abbia
imparato e che abbia ciò che io non ebbi: l’occasione di scoprirlo” disse il re
barbaro prima di chiudere la porta.
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