Quando entrò nella Curia si sentì subito meglio; l'aria calda che avvolgeva l'Urbe in quel periodo non sembrava capace di entrare nella sala da cui il mondo intero traeva il suo ordine, c'era una piacevole aria fresca lì dentro, molto rilassante. Nonostante quel sollievo non riusciva a tollerare l'idea di passare la giornata in balia di quei senatori tanto cenciosi, noiosi e meschini quanto necessari.
I giorni delle Idi di Marzo dovevano essere dedicati ad onorare il grande Marte, padre della stirpe da cui erano nati sia lui che Roma. Che giorni buoni per i Romani, ma per lui, che aveva il sangue degli dei, come per gli dei stessi, non esisteva festa ma solo la sua parte da fare per evitare che il mondo precipitasse nel Caos.
Tutti i senatori si voltarono verso di lui e iniziarono a salutarlo, a chinare il capo come si faceva con gli antichi re. Adulatori ignoranti la maggior parte di loro, ipocriti invidiosi gli altri. Per fortuna veniva salutato anche da uomini della sua misura, lo salutavano tenendo lo sguardo alto e fiero, senza temere di dirgli quando sbagliava, i veri pilastri della Repubblica a cui aveva dato tutto. Primo tra tutti Bruto, il nipote di Catone, uno dei più valorosi figli di Roma.
Si diresse verso il suo posto, ricambiando i saluti e preparandosi a leggere i documenti con l'ordine del giorno. Mentre si avvicinava si soffermò davanti al busto di Gneo Pompeo Magno... il suo amico... il fratello che avrebbe voluto.
Quanto avrebbe desiderato trovarlo lì a costruire una nuova Roma con lui. Se solo non avesse avuto così tanta paura.
Quasi non si accorse di quei senatori che si erano stretti intorno a lui continuando a salutarlo. Uno di loro, Cimbro Tillio, gli si avvicinò.
"Dictator- disse- devo chiedere una clemenza. Porto una citazione da parte di uno dei miei clienti, un parente molto caro che..."
Non c'era tempo per discutere le questioni personali dei senatori. Roma prima di tutto. Gli fece un cenno per fargli capire che ne avrebbero parlato in seguito per poi voltarsi e dirigersi al suo seggio.
Cimbro Tillio afferrò la sua toga trattenendolo.
"Ma questa è violenza bell'e buona!" gli gridò il Dictator voltandosi a guardare quell'insolente. Sentì allora un dolore terribile alle spalle, sotto il collo, gli ricordò le ferite di guerra in Gallia. Si voltò ma non vide un barbaro, era uno dei fratelli Casca.
Gli afferrò il braccio che reggeva ancora il coltello insanguinato e lo infilzò con lo stilo rendendogli l'aggressione, poi si voltò per fuggire ma qualcun altro lo pugnalò e questa volta non riuscì più a muoversi.
Si appoggiò alla base del busto di Pompeo e si guardò intorno, circondato da quegli uomini che l'arroganza, l'avidità e l'ipocrisia avevano reso più spaventosi delle Furie guardiane del grande Abisso. Tra di loro vide anche lui, il giovane Bruto, discendente dei fondatori della Repubblica, suo amico, suo allievo. Prima che lo raggiungesse per pugnalarlo, il conquistatore del mondo riuscì a dirgli solo poche parole: "Anche tu, Bruto, figlio mio?"
Le toghe bianche e rosse di quei senatori che lo avevano salutato poco prima ora lo stavano circondando e gli confondevano la vista mentre altre lame calavano su di lui con una ferocia che non aveva mai visto nemmeno nei barbari che aveva affrontato, sconfitto e annesso in tutto il mondo.
Non aveva scampo, sua moglie aveva ragione, i prodigi erano stati corretti. Quel giorno il discendente di Venere avrebbe incontrato gli dei.
Prima che il suo viso venisse sfregiato sollevò la toga sopra il volto facendo in modo che la parte inferiore del corpo rimanesse protetta. Non voleva perdere il suo decoro, nemmeno nel momento finale.
Non volle far capire ai suoi nemici che li stava deridendo. Aveva vinto: la sua opera era completata grazie alla vendetta dei suoi comandanti, al rigore del suo erede e alla gloria della sua storia.
Quando i suoi assassini ebbero finito di colpirlo, ventitré coltellate, una per ogni congiurato, fuggirono, come i vigliacchi che erano, temendo la vendetta e il castigo a cui si erano destinati. Era stato predetto che quando la tomba di Capi, fondatore di Capua, fosse stata trovata, un discendente di Iulo, figlio di Enea, sarebbe stato ucciso per poi essere vendicato. Pochi mesi erano passati dal ritrovamento delle ossa di Capi.
Il suo ultimo atto fu di alzare il braccio, quel braccio che aveva afferrato e conquistato popoli interi per costruire un nuovo mondo.
"Giove, la mia opera è completa. Ecco, la mia mano è qui, prendila!"
Detto questo il suo braccio cadde a terra.
Così Gaio Giulio Cesare spirò.
Così Gaio Giulio Cesare divenne eterno.