Lettor oggi ti parlo del 20 gennaio del 250 d.C., giorno in cui Gaio Messio Quinto Decio, Imperatore di Roma, fece portare al suo cospetto un uomo, piuttosto anziano, capo di una piccola setta che aveva appena violato la legge.
Decio era determinato a salvare l'Impero dalla decadenza e dalla corruzione che lo stavano logorando; pensava che, se avesse resuscitato i culti e i valori tradizionali della civiltà romana, l'Impero sarebbe tornato agli antichi splendori e alla forza originaria. Così l'Imperatore impose che tutti gli abitanti dell'Impero rendessero un culto a Giove, agli dei della patria, alla dea Roma e al divino Imperatore, oltre che alla venerazione degli Imperatori passati. In cambio di questo culto ogni cittadino riceveva un documento, il libellus, che attestava il culto compiuto e quindi il rispetto degli ordini imperiali.
Il capo di quella setta messo in ginocchio davanti a Decio si era rifiutato di eseguire un sacrificio agli dei antichi, non aveva nemmeno comprato un libellus falso per sfuggire alla punizione che lo aspettava.
"Chi sei?" chiese l'Imperatore.
"I miei fratelli mi chiamano Fabiano, potente Augusto" disse il vecchio.
"Lo sai perché sei qui?" chiese l'Imperatore.
"Perché non ho voluto tradire il mio Signore."
"Sono io il tuo Signore" disse Decio iniziando a manifestare la sua rabbia.
"Noi non siamo tuoi nemici Imperatore. Siamo gente pacifica, persone semplici...."
"Voi siete solo dei pezzenti- disse l'Imperatore- ladri, straccioni e vagabondi, adoratori di un uomo morto.... sì, io so chi siete."
"Noi possiamo essere la nuova forza dell'Impero potente Decio..... Non facciamo altro che lavorare, vivere in semplicità e non abbiamo mai violato la legge."
"Mi stai dicendo che tu hai reso culto alla dea Roma? Che hai versato libagioni ai divini Imperatori? Se è così presentami il tuo libellus, l'attentato della tua fedeltà a Roma e al tuo Imperatore. Fammelo vedere! Mostrami quel documento e tornerai a casa senza che nessuno osi più toccarti o farti del male, in quanto cittadino romano rispettoso della legge."
Fabiano guardò l'Imperatore, dovette fare appello alla sua forza, ma gli rispose sinceramente: "Imperatore..... io non ho questo documento. Non ti mentirei mai, perché tu sei il capo della mia patria e io so che ti devo ubbidienza. Io non ho il libellus, non ho versato libagioni agli dei che tu veneri e non chiedermi di farlo perché ti disubbidirò."
"A costo della vita?" chiese l'Imperatore.
"Io temo l'Imperatore sì..... ma amo di più il mio Signore" rispose quel vecchio guardando dritto davanti a sé.
"Sei il capo della tua gente, come faranno senza la tua guida? Cosa faranno senza di te?" chiese Decio senza guardare più quel vecchio in faccia.
"Altri prenderanno il mio posto- disse Fabiano- non importa cosa ne sarà di me, noi siamo preparati alle persecuzioni...."
"Siete preparati anche a morire?" chiese l'Imperatore.
"La morte è stata sconfitta" disse Fabiano.
"Cosa vuol dire?" chiese l'Imperatore. Non ricevette risposta, ma Decio non si interessava a questo, non si interessava più a niente ormai.
"Portatelo via- disse l'Imperatore- e datelo al carnefice."
Due pretoriani si avvicinarono a Fabiano che si alzò in piedi senza opporre nessuna resistenza. Aveva uno sguardo fiero anche se la schiena curvata dall'età avanzata, Decio invece aveva uno sguardo stanco malgrado il vigore da sempre dimostrato.
Fabiano guardò un'ultima volta negli occhi l'Imperatore e gli disse: "Cristo salvi l'Impero e l'Imperatore" disse. Appena ebbe detto questo Fabiano, il ventesimo Papa, fu portato via e messo a morte quello stesso giorno. Il venti gennaio del 250 d.C., un anno prima che Decio divenisse il primo Imperatore Romano sconfitto in guerra da un'ora barbarica.